Casino, fumo e alcool: tutto quello che sogna un ragazzo di vent’anni. A Vang Vieng tutto è possibile: fumare oppio a prezzi irrisori, bere un litro di cocktail al prezzo di una mezza minerale, girare in costume da bagno per la città e scendere lungo il fiume con il salvagente sotto le chiappe, una cosa che piace tantissimo ad americani e australiani. Musica, birra e sballo: nulla è cambiato dall’ultima volta che venni qui. Vang Vieng è il parco di divertimenti del Laos, un Paese più chiuso nel suo passato che aperto verso il futuro.
I lao sono miti e tranquilli, si accontentano di poco e passano ore a riposarsi. Loro, la vita che fanno i farang a Vang Vieng, non la capiscono, ma danno al turista quello che chiede senza farsi contaminare dalle sue trasgressioni. I lao di Vang Vieng sembrano dire: «Se a voi piace tutto questo eccovi serviti, ma non chiedeteci di condividerlo con voi». Con questi presupposti può essere difficile stabilire contatti con gli autoctoni. L’immagine del turista medio che si sono fatti i locali – che è la stessa che mi sono fatto anch’io – è quella del ventenne che beve, fuma e scende il Song con le chiappe a mollo e una bottiglia di birra in mano. Per loro, i farang, sono tutti così.
Il Rock Bar è uno dei tanti discobar che si affacciano sul fiume Song. Davanti ad un televisore vecchio e sgangherato, sbracato su un materassino, un uomo sulla cinquantina mi saluta e cerca di propormi un’escursione: «Dove vai stamattina? Ti interessa un tour in moto? Alle dieci parto con due francesi e se vuoi ti puoi aggiungere» mi dice mentre sputa per terra. Il tipo non sembra affidabile, ma è al Rock Bar tutte le sere; dev’essere una specie di guardiano, di socio, di senzatetto o tutte e tre le cose insieme. Per persuadermi ad accettare la sua proposta mi mostra il programma dell’escursione che sta scritto su un cartello appeso alla parete esterna del suo cesso.
Keo tossisce spesso mentre parla, con il timbro rauco di chi fuma parecchio: «No, no, non sono le sigarette, è la marijuana, ma non fumo solo quella, fumo anche hashish e yaba» mi dice mentre sputa ancora per terra.
Il tour di un giorno costa 100.000 kip (meno di 10 euro). Incuriosito da tutta quell’approssimazione misto sudiciume accetto la proposta. Keo si porta dietro un bancone, tira fuori un brogliaccio di carta, sfoglia le pagine per trovarne una senza macchie di unto e comincia a scrivere: uno, due, tre, nome, età, hotel, puntini, puntini. Fa due scarabocchi – che nelle sue intenzioni sarebbero i nomi delle due francesi – poi mi passa la penna e mi chiede di inserire i miei dati. Dopo pochi minuti si parte. Senza le francesi.
La prima sosta è presso una scuola locale frequentata da bambini khmu, una delle minoranze etniche presenti in Laos. Le scuole laotiane sono tutte uguali: un edificio a piano terra con un corridoio esterno sul quale si affacciano le le porte di accesso alle aule. L’edificio è sempre bianco, le porte e le persiane quasi sempre azzurre. Nelle aule non c’è né luce né aria condizionata e il bagno è all’esterno.
È quasi mezzogiorno, i bambini escono per la pausa pranzo. Nelle loro uniformi bianche e blu salgono salgono sulle biciclette. I più grandi guidano, i più piccoli siedono sul seggiolino posteriore. Nelle campagne sono i fratelli e le sorelle maggiori che si occupano dei più piccoli. Non ci sono genitori a bordo di fiammanti automobili ad attendere i bambini all’uscita da scuola, ma solo grandi e sgangherate biciclette con il manubrio ricurvo.
Nuova sosta. Lungo la strada che porta verso la caverna di Phom Hom, una lunga fila di baracche di legno è l’ennesimo villaggio di campagna. Un anziano signore a petto nudo seduto sull’uscio di una capanna ci osserva entrare nel suo tugurio, con un’espressione triste e sconsolata. E’ un parente di Keo, la mia guida, vai a sapere chi sia. Nella baracca non c’è nulla a parte un tavolino, un armadio di legno raffazzonato e uno specchio scheggiato. Nella penombra dell’alloggio una ragazza allatta un infante.
«Sono poverissimi – dice Keo – il nonno confeziona scope di saggina fatte a mano e le vende ai passanti, mentre la nipote alleva due bambini. Hanno qualche gallina e un po’ di terra, nulla di più». Keo estrae dalla giacca un sacchetto di plastica. Da dietro una tenda, spunta la testa di una bambina vestita con la divisa della scuola. La piccola corre incontro a Keo con il sorriso spalancato, è eccitatissima, trema dalla gioia. Mew ha appena ricevuto un regalo da suo zio: una granita all’arancia e una fetta d’anguria. Dietro a tanta apparente felicità c’è un lato molto triste. Mew è malata, ha spesso la febbre e di notte fa fatica a respirare. Il medico l’ha già visitata e le ha prescritto le medicine che la sua famiglia non ha i soldi per comprare. Sono momenti in cui pensi che non te ne puoi andare lasciandoti dietro la scia dell’indifferenza.
«Soldi è meglio non darne alla bambina, ma sulla strada del ritorno possiamo comprarle le medicine», dice Keo. Con questa promessa ci allontaniamo per proseguire il nostro viaggio.
Un’altra scuola, di studenti h’mong. Al suono della campanella decine di studenti corrono verso l’uscita, tranne una. Immobile nel cortile della scuola una ragazza ci osserva tra il curioso e l’imbarazzato. Lei non va a casa né gioca a pallavolo insieme ai suoi compagni nel polveroso campetto della scuola. Il suo villaggio dista otto chilometri e non ha alcun mezzo di trasporto.
Phom Hom è una piscina di acqua calcarea che fuoriesce da una cavità nella montagna. Con il costume e il ciambellone mi lascio trasportare nella buia caverna cullato dalle acque. Ne valeva davvero la pena. Come promesso alla piccola Mew, facciamo sosta all’ospedale pubblico per acquistare le medicine. Il Pathong Health Center, nelle intenzioni di chi l’ha costruito, è un presidio ambulatoriale locale, uno dei tanti presenti nelle zone più isolate. Le medicine per la piccola Mew ci sono; il prezzo è pari a 8 euro. A Milano, con quella cifra, ci farei un aperitivo a base di ghiaccio. Nel cortile antistante la casa di Mew una ragazza appena adolescente culla un bambino. Di Mew non c’è traccia, probabilmente è sulle montagne a raccogliere la frutta. In Laos, dopo la scuola, i bambini non giocano alla Playstation né a fanno i compiti, vanno a caccia, a pesca o a raccogliere la frutta nella giungla.
Non rivedrò mai più la piccola Mew. Mi dispiace solo di non averle potuto consegnare di persona le medicine, avrei voluto vedere un’ultima volta il suo sorriso, spontaneo, sincero e gratuito. Non c’è altro da fare che lasciarle al nonno, seduto sull’uscio accanto alle scope di saggina. Scende la sera e le strade extraurbane in Laos non sono illuminate.
Una fetta d’anguria e una granita all’arancia, due doni senza valore economico, ma per le persone povere, quelle che non hanno nulla di cui gioire, sono le cose semplici a stupire di più, le cose per cui vale la pena correre incontro a una persona ed emozionarsi scartando il pacchetto. Il sorriso di Mew al posto di un cocktail a base di ghiaccio è il miglior aperitivo della sera.
Il mio primo impatto con il sud-est asiatico risale al 2010, e fu devastante. Due anni dopo ci tornai per un lungo viaggio a cavallo di sei Paesi. Doveva essere solo un’esperienza rigenerante e invece finii per scavare dentro me stesso. Quei sei mesi cambiarono la mia vita.